È noto il fenomeno consistente nell’occupazione, da parte di soggetti pubblici, di aree private in assenza, «a monte», di un titolo idoneo a giustificare tale apprensione, oppure, «a valle», di un valido provvedimento ablativo della proprietà.
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In tali situazioni ci si chiede se la pubblica amministrazione, a fronte di una pretesa rei vindicatoria del privato avanzata a distanza di molti anni, possa far valere l’usucapione del bene e quindi l’acquisto a titolo originario della proprietà . Così ci si domanda, in primo luogo, se in astratto possa ammettersi nel nostro ordinamento l’applicazione di un istituto che, seppur mosso da esigenze di certezza giuridica e di tutela dell’interesse di colui che opera uno «sfruttamento socialmente utile» del bene, finisce con l’avere un effetto «premiale» di un «fare» illecito tenuto da un soggetto «qualificato», quale quello pubblico. In secondo luogo si indaga se, nelle condotte di occupazione di beni privati poste in essere dai pubblici poteri, siano davvero ravvisabili i presupposti civilistici del possesso ad usucapionem, cercando altresì di individuare il dies a quo a decorrere dal quale potrebbe in ipotesi maturare il relativo termine. Nell’ultima parte del lavoro viene, infine, affrontato il consequenziale problema dell’individuazione delle regole proprietarie in base alle quali rispondere all’interrogativo circa il destino dell’opera pubblica realizzata sul suolo privato: così, passando in rassegna gli istituti della «specificazione», della «accessione» e della tutela ripristinatoria, si giunge fino ad affrontare la tematica della c.d. «acquisizione sanante», di recente reintrodotta dall’art. 42-bis del T.U. espropri, chiedendosi altresì se la previsione di tale istituto possa fornire utili spunti ermeneutici per rispondere all’interrogativo circa l’usucapibilità del bene privato ad opera del soggetto pubblico.